Silvia Occhipinti

Silvia Occhipinti
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Silvia Occhipinti ha 26 anni ed è originaria di un paesino in provincia di Ravenna. Di animo nomade più per destino che per vocazione, ha vissuto per studio e lavoro a Firenze, Bologna, in Veneto e nelle Marche, per poi fermarsi (definitivamente?) in Liguria. Dopo il diploma all'Istituto Polimoda di Firenze e due esperienze lavorative con Pucci e Gucci è finalmente approdata a Kimsoo, il suo brand di abbigliamento e accessori in pezzi unici, come unica è la pelle che abitiamo.

Intervista di Isabella Sacchetti 

Parole: 1544 | Tempo di lettura: 5 minuti

Silvia, qual è la tua storia?

Sono originaria di un paesino in provincia di Ravenna, ma ho vissuto a Firenze, Bologna, in Veneto, nelle Marche e ora, a 26 anni, mi sono trasferita in Liguria.

Da sempre cerco di conciliare parti di me che sembrano diametralmente opposte: l'impegno etico e sociale con la creazione di vestiti, la passione per il greco antico e i magazine di moda, la mia vena polemica e scorbutica con l'attività di produttrice a perenne contatto con il pubblico.

Dopo un lungo percorso iniziato con l'iscrizione all'istituto Polimoda, continuato presso Emilio Pucci e Gucci, sono finalmente approdata a quello che è realmente il lavoro che fa per me: ho un mio marchio, Kimsoo, con cui produco abbigliamento e accessori in pezzi unici destinati a donne altrettanto uniche.

Come è nata la tua passione per la moda?

La mia passione per la moda è nata osservando mia nonna cucire. Ma col passare degli anni questo desiderio di creazione è aumentato leggendo un manga, “Cortili del Cuore”, la cui protagonista era appassionata di moda come me: spesso rimanevo sveglia la notte a leggere le sue avventure con le coperte tirate fin sopra la testa e la luce del comodino accesa. Invidiavo la sua forza d'animo e la sua testardaggine, il suo coraggio e la sua determinazione. Volevo essere anche io in grado di trasmettere felicità attraverso gli abiti, i loro colori e le loro forme, e questo è il mio obiettivo ancora oggi.

Mi racconti brevemente la tua esperienza con Gucci e Pucci?

Dopo aver concluso il corso di modellistica presso il Polimoda, mi è stato proposto uno stage presso Emilio Pucci. Ovviamente ho accettato, entusiasta di poter far parte di una casa di moda così unica nel suo stile, con le sue stampe visionarie e immaginifiche. Ho passato qualche mese al tavolo del taglio per poi ritrovarmi nel reparto cucito. Dopo sei mesi di stage in azienda, prima che potessero offrirmi un contratto, avevo già trovato lavoro a Firenze presso una pellicceria che si occupava della realizzazione di capi per grandi marchi italiani e stranieri, tra cui Gucci ed Alexander McQueen.

Entrambe le esperienze sono state molto positive: tutti coloro con cui ho lavorato mi hanno trasmesso il loro sapere, senza nascondermi nulla, ma incoraggiandomi ad andare avanti e a non demordere.

I problemi che ho riscontrato lavorando lì non erano infatti con le persone, ma con il «sistema moda»: non avevamo il tempo di completare una collezione invernale, che già era tempo della pre-collezione della stagione successiva. Oltretutto, per difendere il diritto d'autore, ogni rimanenza di stoffa era portata al macero, con notevoli sprechi.  

Dopodiché ti sei fermata per due anni. Qual è la cosa che più ti ha spinto a abbandonare tutto?

Ho deciso di porre fine al mio rapporto lavorativo presso la pellicceria fiorentina perché sentivo che non era il lavoro giusto per me. Ho quindi fatto i primi passi come libera professionista insieme ad una ragazza coreana, che da anni vive a Firenze, all'interno di un negozio autonomo, decisamente più piccolo e con ritmi estremamente diversi.

Purtroppo quest'esperienza si è rivelata decisamente travagliata, probabilmente perché non ero ancora pronta a sostenere il peso di una carriera autonoma e non ero abbastanza determinata nel far valere la mia individualità. Ho quindi messo la parola fine alla mia esperienza fiorentina e sono ritornata al mio paese di nascita, senza più punti fermi e con tanta confusione: dopo quattro anni di indipendenza ritrovarmi a casa è stato un duro colpo.

Cosa hai fatto in quei due anni?

Per mantenermi ho lavorato come cameriera. Nonostante i miei nonni mi avessero regalato delle macchine da cucire meravigliose, industriali e precisissime, non riuscivo a rapportarmi con il cucito. Avevo interiorizzato sin troppo la catena di montaggio industriale: senza qualcuno che mi portasse stoffa già tagliata da cucire ero completamente bloccata. La stoffa mi era diventata nemica, e riuscivo solo a creare abiti per me stessa. Oltretutto avevo perso i contatti con quasi tutte le persone che avevo conosciuto prima di partire per Firenze, quindi ho passato un periodo di grande solitudine. Fortunatamente ho poi conosciuto un gruppo di ragazzi e ragazze che si occupavano di volontariato culturale con iniziative nelle piazze e nelle scuole: sono stati loro la mia casa in quel periodo difficile, mi hanno permesso di conoscere un'infinità di persone straordinarie e di guardare il mondo con occhi diversi e un piglio più costruttivo.

Poi è arrivata la scoperta di Hundertwasser e qualcosa è cambiato nuovamente dentro di te. Mi racconti di questa esperienza interiore? Come è scattata questa nuova consapevolezza?

Tramite questo gruppo di volontariato ho conosciuto Stefania, una ragazza con cui si è subito instaurato un legame speciale. Anche per lei il cucito è una grande passione, ma non lo ha scelto come mestiere: è un passatempo a cui si dedica anima e corpo nel tempo libero. È stata lei a farmi capire che l'essenza di un abito è rendere felice chi lo crea e chi lo porta, altrimenti rimane e rimarrà sempre un inerte pezzo di stoffa. Mi ha insegnato che non esistono errori mentre si cuce, non ci sono cuciture storte, o tagli azzardati.

La guida filosofica di Stefania è appunto Hundertwasser, un artista austriaco secondo il quale ogni essere umano può essere felice solamente se in rapporto armonioso con tutte le sue cinque pelli: l'epidermide, i vestiti, la casa, la società in cui vive e l'intero pianeta. Ognuna delle pelli è personale, quindi, per quanto riguarda il mio mestiere, perché indossare capi creati per centinaia, migliaia di persone in serie? Non esistono due esseri umani uguali, quindi non possono esistere nemmeno due abiti identici.

Perciò adesso realizzi solo pezzi unici?

Esatto. Realizzo un numero limitato di modelli indipendentemente dalla tendenza o dalla stagione e, per ogni pezzo di stoffa a mia disposizione, creo un abito differente. Cercare le stoffe con cui creare è la parte migliore del mio mestiere: non compro praticamente mai tessuto a metraggio, preferisco cercare scampoli o rimanenze di magazzino, di stoffe vintage o fuori moda.

Non sono quasi mai io a decidere cosa creare, ma è la materia prima a suggerirmelo: realizzo ciò che essa vuole diventare; proprio per questo motivo non programmo o pianifico cosa creare. In più tendo ad accumulare molte stoffe, che tengo più o meno ordinate all'interno del mio laboratorio: per coloro che vengono a trovarmi, il mio scatolone delle meraviglie è a completa disposizione e sicuramente al suo interno troveranno una stoffa in grado di rispecchiarli al meglio!

Quali sono le maggiori difficoltà che stai affrontando nella tua nuova attività indipendente?

Sto affrontando tante difficoltà, ma anche le soddisfazioni non mancano! Creare pezzi unici non è semplice: spesso alcuni abiti destano più interesse di altri e, anche se sarebbe per me economicamente conveniente duplicarli, preferisco tenere fede alla promessa che mi sono fatta piuttosto che inseguire il guadagno facile. Il costo dei miei abiti non può competere con quello delle catene di fashion low cost che ora vanno per la maggiore, di contro, però, la felicità che vedi sui volti delle persone quando trovano il vestito fatto apposta per loro è veramente impagabile. Ho venduto alcuni fra i pezzi più esagerati ad una signora ultranovantenne, la quale dopo averli provati mi ha detto che nei negozi non riusciva a trovare nulla di simile, e sembravano cuciti indosso a lei. Uno degli ultimi capi è stato scelto da una sposa, nonostante io l'avessi pensato per tutt'altra occasione. È proprio questo uno dei motori che mi spinge a creare: la curiosità di sapere a chi sarà destinato il capo a cui io ho dato vita. È una sensazione impagabile.

Che consiglio daresti a un giovane che voglia provare a essere imprenditore di se stesso?

A chiunque voglia essere imprenditore di se stesso dico di imparare a conoscersi bene, di sapere perfettamente quali siano i suoi punti di forza e quali le debolezze. E di fare leva sì sui primi, ma di non nascondere le seconde. C'è tanto bisogno di ricostruire rapporti umani, di riappropriarsi di genuinità di relazioni e di scambi: tutte le persone che si rivolgono a me non ottengono solo un abito, ma un piccolo pezzo di me.

Più che un vestito, comprano un piccolo momento di felicità, che si ripeterà ogni volta che questo verrà indossato. Quindi bisogna prepararsi a dare molto, sia in termini di tempo e denaro, ma anche emotivi, e non sempre è semplice. Ma se si ha la pazienza di andare avanti, e non cedere, le soddisfazioni possono essere davvero grandi! 

Un ultima domanda di tipo personale: mi racconti del tuo tatuaggio che hai sul braccio?

Il mio tatuaggio si chiama «Accettazione di Vanità». Erano più o meno dodici anni che aspettavo di tatuarmi. Anche se non avevo ben chiaro cosa avrei impresso sulla mia pelle, sapevo che dovevo modificarla, affinché la sentissi più mia e, poco dopo il trasferimento in Liguria, ho capito che era il momento giusto per farlo. Finalmente ero riuscita a trovare un equilibrio fra la mia parte più socialmente impegnata e quella più frivola, dedicata alla moda. Ho capito che potevo far collimare le mie due passioni, accettando la mia vanità e incanalandola in qualcosa di costruttivo. Ed eccola qui, la mia donna pavone che mi protegge!

 

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